Editoriale

03 Ott

2016

Libertà bene prezioso?

La libertà “non è star sopra un albero” cantava Giorgio Gaber e le celebrazioni del 25 aprile ci hanno ricordato quanto sia costata. Per proseguire la riflessione, sul destino della nostra società, libera e benestante, propongo la lettura di un testo nel quale si analizza come i nostri predecessori abbiano “amministrato la repubblica e quanto grande l’abbiano lasciata, e come trasformandosi a poco a poco sia divenuta la più sciagurata e corrotta, dalla migliore e più nobile che era”.

“Per primo crebbe il desiderio di denaro, poi quello di comando. Tali passioni furono l’origine di tutti i mali. Infatti l’avarizia sovvertì la fede, l’onestà e tutte le altre virtù; al posto di queste insegnò la superbia, la crudeltà, l’ateismo, il considerare tutto in vendita. L’ambizione spinse a diventare menzogneri molti uomini, ad avere una cosa nel cuore, un’altra palese sulla lingua, a stimare l’amicizia non secondo i meriti reali ma in base al vantaggio personale, e ad avere più un bell’aspetto che un buon animo. Questi mali all’inizio crebbero a poco a poco, talora venivano puniti; poi, quando il contatto dilagò quasi in pestilenza, la città si trasformò, il governo da giustissimo e ottimo divenne crudele ed insopportabile.

L’avidità non ama che il denaro, cosa non certo tipica dei saggi; questa forma di avidità è simile ad un veleno mortale: illanguidisce il corpo e l’anima dell’uomo; è sempre inesauribile e insaziabile, né l’abbondanza, né la penuria di mezzi riescono a placarla.

Dopo che le ricchezze cominciarono a rappresentare un merito e ne derivarono prestigio, autorità, potere, la virtù cominciò a intorpidirsi, la povertà ad essere considerata un disonore e l’integrità un’ostentazione”.

Sembra un testo contemporaneo. In realtà è tratto da la Congiura di Catilina di Sallustio, del I sec. a.C. Dei fasti dell’impero romano sono rimaste le rovine.

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