Editoriale

03 Ott

2016

«Rammarico, dolore e sofferenza». Faccio mie le tre parole che Padre Giulio Albanese ha usato per descrivere il suo stato d’animo, dopo la chiusura della Missionary International Service News Agency (MISNA) l’agenzia di informazione da lui fondata nel 1997.

Come non condividere le sue parole? È una scelta fuori dal tempo e dalla storia, in contraddizione con l’inizio dell’Anno della misericordia e con la missione affidata a tutti noi da Papa Francesco: dare voce a chi non ha voce e raccontare le periferie del mondo. Una sfida culturale. E invece, proprio ora, mentre in regioni come la Repubblica Centrafricana, la Somalia, il Congo, succedono cose terribili, la MISNA viene chiusa.

MISNA era nata grazie all’aiuto degli Istituti missionari: 30 milioni di lire, un computer, un telefono dotato di due linee e due traduttori messi in uno scantinato della Basilica romana di San Pancrazio. Le notizie giungevano attraverso la rete dei missionari che non erano giornalisti, ma comunque molto bravi a rispondere alle cinque W della professione (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?) fornendo informazioni che nessun altro aveva. Era un esempio di “opera collettiva dell’ingegno”, un paradigma di comunicazione sociale.

Una struttura come la MISNA aveva bisogno di investimenti. Il 30 novembre del 2002 gli Stati generali dei missionari (a cui parteciparono 54 congregazioni) promisero sostegno, ma alla fine restarono solo in quattro a sostenere i costi: Consolata, Comboniani, Saveriani e Pime.

La Cei ha cercato di salvarla proponendo di:

1. coprire il bilancio per due anni;

2. fornire un service composto da Avvenire, TV2000, Radio in Blu e Sir;

3. offrire una persona per gestire la raccolta dei fondi.

Perché la proposta non è stata accettata? Perché non se ne parla? Perché non si urla contro questa chiusura? Perché?

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